N. J. vent’anni, etiope: torturata nella prigione degli orrori a Kufra. Continua l’assordante silenzio sul “sistema Libia”

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La ragazza è fuggita meno di un anno fa dall’Oromia, la regione dove sono in corso da sempre feroci scontri etnico-politici tra oromo e amhara, devastata da una lunga siccità che distrugge ormai quasi sistematicamente i raccolti e falcidia il bestiame, provocando fame, miseria, carestia. Al principale terminale delle piste che salgono verso nord dal confine sudanese, N. J. è stata sequestrata e rinchiusa in una delle prigioni dei trafficanti di donne e uomini. In un anno di torture, ai parenti sono arrivate richieste sempre più esose per la sua liberazione. Seimila dollari l’ultima richiesta ad una famiglia di una regione dove il reddito medio pro capite non arriva a 5 dollari al giorno. David Yambio, portavoce della Ong “Refugees in Libya”: «La Libia oggi è una macchina costruita per ridurre in polvere i corpi dei neri, un cimitero per migranti». Per l’Italia la Libia è un “paese sicuro”

◆ L’analisi di EMILIO DRUDI *

Il 2025 si è aperto con le immagini terribili di una ragazza etiope torturata in Libia da una banda di trafficanti per indurre la famiglia a pagare quanto prima un riscatto di 6 mila dollari per lasciarla andare. Prima una foto in cui la giovane appare inginocchiata, legata e imbavagliata, con alle spalle decine di altri prigionieri costretti a tenere la testa china e nascosta tra le braccia, e poi le sequenze di alcune fasi della tortura, con lei appesa al soffitto per le braccia e qualcuno che la colpisce ripetutamente a frustate mentre qualcun altro le getta periodicamente dell’acqua sul viso e in testa per impedirle di perdere conoscenza.

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La ragazza – come ha scoperto la Ong Refugees in Libya – si chiama N. J. ed ha appena 20 anni. È fuggita meno di un anno fa dall’Oromia, la regione dove sono in corso da sempre feroci scontri etnico-politici tra oromo e amhara e devastata da una lunga siccità che distrugge ormai quasi sistematicamente i raccolti e falcidia il bestiame, provocando fame, miseria, carestia. In Libia è arrivata nel maggio del 2024, passando dal Sudan. Puntava verso la costa del Mediterraneo, insieme ad altri profughi come lei, per tentare di imbarcarsi e chiedere asilo ed aiuto in Europa. Ma il suo viaggio che sognava di libertà si è interrotto a Kufra, il principale terminale delle piste che salgono verso nord dal confine sudanese, dove è stata sequestrata e rinchiusa in una delle prigioni dei trafficanti di donne e uomini. Pochi giorni dopo sono cominciate ad arrivare alla sua famiglia, in Oromia, le prime richieste di riscatto: telefonate sempre più minacciose ed esose, fino a raggiungere la cifra di 6 mila dollari, enorme per un paese dove il reddito medio pro capite non arriva a 5 dollari al giorno e per di più impoverito dalle guerre interne che, aperte con il conflitto in Tigrai nel novembre 2020, si sono susseguite in quasi tutto il paese, spesso con massacri etnici indiscriminati: in particolare ancora nello stesso Tigrai, nell’Ogaden, nell’Amhara e, appunto, nell’Oromia.

L’ultimo atto di questo stillicidio disumano si è avuto la mattina del 6 gennaio, quando i trafficanti hanno fatto pervenire ai genitori di N. J. la foto e poi il video della tortura. L’orrore estremo aggiunto a quasi un anno di brutalità continue. Il padre, la madre, tutta la famiglia allargata si stanno dando da fare da mesi per mettere insieme la somma. I trafficanti lo sanno bene, ma non vogliono aspettare ancora: pretendono i soldi subito e le immagini inviate dicono chiaramente che non si fanno scrupoli. Che per loro la vita di N. J. conta solo come merce da vendere. Per “fare soldi”.

Non è una tragedia nuova. Né isolata. Storie di questo genere ne sono emerse a decine nel tempo. Talvolta con immagini altrettanto crude. Ma anche questa volta, come ogni volta, questa foto e questo filmato scuotono come se fossero “inediti”. Forse, anzi, scuotono ancora di più proprio perché non sono “inediti”: perché le tantissime torture documentate finora, per anni, non sembrano aver turbato più di tanto le coscienze. Sicuramente non le coscienze e la sensibilità di chi, in Italia come in Europa, continua a lodare la Libia per il “lavoro svolto” per contrastare l’emigrazione. Per i raid della polizia nelle periferie e lungo le vie di terra ma soprattutto per le catture in mare e i respingimenti che consegnano i profughi/migranti a inferni come la prigione dei trafficanti di Kufra.

I trafficanti agiscono pressoché indisturbati, senza che le autorità libiche si preoccupino davvero di individuarli, mandarli in galera, mettere fine a questo enorme mercato di morte, di cui sono vittime centinaia, migliaia di disperati, a cominciare da N. J. e dalla cinquantina di giovani che si vedono nella foto alle sue spalle. Perché non è sicuramente un caso che i trafficanti abbiano voluto mostrare anche quest’altra cinquantina di prigionieri: la loro presenza è un chiaro messaggio che la stessa sorte di N. J. toccherà a tutti loro se le loro famiglie non troveranno al più presto il modo di pagare il riscatto. E infatti già nella serata del 6 gennaio sono state inviate a una famiglia somala le foto del loro ragazzo con il corpo martoriato da ferite e lividi spaventosi, dovuti a torture e percosse con fruste e bastoni.

Ma quello di Kufra – come si è accennato – non è che un caso tra tantissimi. Coglie bene la situazione David Yambio, portavoce di Refugees in Libya: «Questa – scrive – è la realtà della Libia oggi. Non basta definire la Libia caotica e senza legge: sarebbe troppo poco. Troppo diminutivo. La Libia è una macchina costruita per ridurre in polvere i corpi dei neri. Le aste di oggi (per i riscatti dei migranti prigionieri: ndr) riportano agli stessi freddi calcoli di quelle di secoli fa: un uomo ridotto alla forza delle sue braccia, una donna alla curva della sua schiena, un bambino al potenziale dei suoi anni. Perché la vicenda di N. J. è solo una delle tante. La Libia è diventata un cimitero per i migranti: un luogo dove la disumanizzazione del nero non è né nascosta né condannata. I trafficanti operano apertamente, favoriti dall’impunità o addirittura dalla complicità di sistemi che chiudono gli occhi su questo orrore». 

«E il mondo − aggiunge Yambio − guarda dall’altra parte. La Libia è l’ombra dell’Europa, la verità non detta della sua politica migratoria: un inferno costruito sul razzismo arabo e alimentato dall’indifferenza europea. La chiamano controllo delle frontiere, ma è crudeltà vestita di burocrazia”. E ancora: “I 6 mila dollari di riscatto richiesti per N. J. non sono solo il prezzo della sua vita: sono anche il prezzo del silenzio di una comunità globale che permette che questo orrore accada. Una sofferenza senza fine. Il destino di N. J. e delle altre 50 vittime di Kufra rimane incerto. Le loro grida sono accolte con indifferenza da chi potrebbe intervenire ma sceglie di non farlo».

E questo «scegliere di non farlo» rende inesorabilmente complici. Colpevoli. Tanto più se, come fa in particolare l’Italia, non solo si “chiudono gli occhi” di fronte all’orrore ma si arriva a negarlo questo orrore. Come accade quando si perseguono le Ong “responsabili” di rifiutarsi di seguire le disposizioni delle autorità di Tripoli, impartite in aperto contrasto con il diritto internazionale e volte a riportare i naufraghi/migranti nell’inferno della Libia. Oppure quando si maschera la sempre più dura politica di chiusura e respingimento contro i migranti con il pretesto di voler “fare la guerra ai trafficanti”. Una ben strana “guerra”, che ignora l’indifferenza e le complicità di importanti esponenti anche istituzionali del “sistema Libia” in questo traffico di morte, più volte denunciate e documentate dai rapporti dell’Onu e di numerose Ong, ma regolarmente “silenziate”. O, ancora, quando si cerca di affermare che, in fondo, la Libia è un “paese sicuro”.

Ritorna, allora, il tema di sempre. Alla politica sull’emigrazione adottata da Roma e da Bruxelles non importa nulla di tragedie come quella di N. J. e dei suoi 50 compagni. Nulla delle migliaia che vivono la stessa “sofferenza infinita”. Conta solo che i profughi/migranti non arrivino neanche a bussare alle porte della Fortezza Europa. A qualsiasi costo e qualunque sia il destino che li aspetta.

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Nota: il Comitato Nuovi Desaparecidos è in possesso delle immagini delle torture inflitte a N. J. e ai suoi compagni ma preferisce non pubblicarle per rispetto delle vittime.

(*) L’autore dirige www.nuovidesaparecidos.net

 





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