Roma è purtroppo capitale anche degli anni di piombo. Decine sono stati i ragazzi di destra e di sinistra uccisi in strada negli anni ‘70, un tributo di sangue che ha fatto soffrire tante famiglie e tante comunità, cui incredibilmente non sono corrisposte condanne per i colpevoli di omicidi e stragi. Molte altre città furono colpite da quella spirale d’odio e chi all’epoca era al potere ne porta per intero la responsabilità politica.
Oggi ricorre il 47º anniversario dell’eccidio di Acca Larenzia nel quale due giovani ventenni di destra, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, rimasero uccisi e altri due feriti per mano di un commando comunista che su di loro doveva addestrarsi per aspirare al reclutamento nelle Brigate Rosse. Il giorno dopo un altro ragazzo, Stefano Recchioni, fu centrato alla testa da un colpo di pistola sparato da un agente in borghese, senza un motivo che potesse giustificarlo. Il 10 gennaio del 1979 Alberto Giaquinto fu trafitto alla nuca da un proiettile esploso da un poliziotto mentre manifestava in ricordo dei caduti ad Acca Larenzia. Pochi anni dopo il papà di Ciavatta riuscì nel suo terzo tentativo di suicidio, il dramma che si fa tragedia.
Quarantasette anni in attesa di capire perché la mitragliera Skorpion che uccise altre tre personalità politiche e sindacali, usata nell’azione sanguinaria, non fu tracciata e non portò all’individuazione degli assassini.
È perfino banale che la parte offesa gridi ogni anno e in ogni modo la sua indignazione per indagini fatte all’acqua di rose e per il dolore che travolse un’intera generazione e i suoi figli, depositari del racconto di una persecuzione subita nell’impunità dai propri genitori. La strage di Acca Larenzia rappresenta per questa incredibile somma di circostanze orribili un punto di non ritorno.
È giunta l’ora di condividere questa memoria, senza ipocrisie. Memoria comune che se non può più poggiarsi sulle sentenze dei tribunali deve fondarsi sulla verità storica. E a questa si può ancora giungere attraverso una commissione parlamentare d’inchiesta che accerti le responsabilità di chi ha messo in mano a ragazzi di 18-20 anni armi da guerra, mitragliette, esplosivi.
Non ci sono troppe speranze di riaprire i processi, ma capire se c’è stata una mano che ha mosso i fili della strategia della tensione sì, è possibile. Fare luce sarà il modo per risarcire chi ha sofferto.
Ricordo anche che tanto sembrava vietato trovare i colpevoli di quella mattanza che quando, raramente, si giunse a condannare gli assassini si provvide subito dopo a garantirne in un modo o nell’altro la libertà.
Una proposta che so non essere sgradita alla sinistra, perché circoscritta alla violenza politica degli anni ‘70. Ma la pacificazione ha bisogno di strumenti, non si è credibili a predicarla quando si fa sciacallaggio. Tantomeno quando si divelgono a picconate le lapidi affisse decenni fa dagli amici di Stefano Recchioni, come accaduto per mano del Campidoglio a pochi giorni dal 7 gennaio, probabilmente un errore più che una provocazione. Atteggiamento distante anni luce dal gesto decisivo del presidente partigiano Sandro Pertini quando a febbraio del 1983 andò a salutare Paolo Di Nella, altro ragazzo di destra aggredito mentre affiggeva manifesti, a poche ore dalla morte, dopo un coma di sette giorni. Distante da quello di Valter Veltroni che fece incontrare Giampaolo Mattei, uno dei fratelli sopravvissuti di Stefano e Virgilio Mattei, bruciati vivi nel rogo di Primavalle da un commando di Potere operaio, con la mamma di Valerio Verbano, militante della sinistra estrema giustiziato davanti ai genitori da neofascisti. Che pacificazione sia allora, costruendo e non distruggendo, tendendo mani verso chi ha idee diverse dalle proprie e non lanciando anatemi, condividendo i testi delle targhe istituzionali a ricordo eterno di quegli episodi e citando sempre la matrice. In modo che le cosiddette “lapidi abusive”, se incompatibili, vengano rimosse da chi le ha apposte e non dai suoi avversari. La vita e la morte infatti, nelle migliori civiltà, contano più delle ideologie.
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